Davor Ivankovac: Lunedì (2017)
Il Premio Lapis Histriae 2017
Davor Ivankovac
Lunedì
Il vagone traballava leggermente girando a destra attraverso la periferia, e poco dopo essersi raddrizzato il cielo orientale apparì a sinistra. Poi rallentò notevolmente dondolandosi nel attraversare i binari intrecciati, segno che si avvicinava alla stazione. Guardavo a sinistra verso est, come la maggior parte dei viaggiatori. Le sagome dei condomini iniziavano ad apparire pochi attimi prima dell'alba: per primo si trattava di case piano terra subito in periferia, lunghe vie distanziate che arrivavano fino ai neri campi, qualche guglia in cima del campanile o di alto camino industriale, poi basse case monopiano, e grattacieli dietro nel centro urbano della periferia. La visuale orientale veniva chiusa di fretta dalle sagome massive dei due silos che sono apparse a fianco dei binari, e nelle loro ombre ci siamo di nuovo immersi nel buio totale, mentre le rotaie proseguivano lungo i muri degli stabilimenti industriali, immensi edifici sullo sfondo del porto fluviale sopra i quali si innalzavano delle gru ancora più magiche, e la visura si apriva nuovamente sulla scintillante superficie del grande fiume. Quando mi sono sporto in avanti, lontano davanti a me ho visto altri condomini, dietro ai quali si trovava il centro della città, ma circa duecento metri prima del grattacielo più vicino, il treno rallentò e si fermò precipitosamente alla stazione centrale. Ancora immersa nell’ombra, l’edificio della stazione rivelava infallibilmente l’edilizia austroungarica, ma non me ne preoccupai a lungo, poiché uno dei passeggeri propose di andare tutti assieme a fare colazione al bar della stazione; erano quasi le cinque e il nostro turno doveva iniziare alle sei. Così mi girai e mi incamminai con gli altri.
Ci siamo presentati al concorso di lavoro per operai in una fabbrica di pneumatici e altri prodotti in gomma, e dopo quindici giorni ci hanno chiamati per un, come lo hanno chiamato loro, “periodo di prova”. Eravamo una ventina, da quello che ho potuto vedere quella mattina, una ventina di assonati, brilli e leggermente assiderati uomini e donne al binario 5 bi a sinistra, che aspettavano il primo treno regolare del mattino per la città vicina, distante sedici chilometri verso est; erano poco dopo le quattro del mattino, alcuni salterellavano al fresco notturno, alcuni già fumavano con le mani ficcate profondamente nelle tasche. Al telefono abbiamo scoperto poca cosa, soltanto che alle sei dovevamo raccoglierci all’ingresso della fabbrica e che il capo ci avrebbe collocati e avviati all'attività. Nel bando di concorso scriveva che l’esperienza lavorativa non era rilevante, lo ha ripetuto l’uomo al telefono, la patente di guida non era necessaria, l’alloggio non c’era, l’indennità di trasporto parzialmente retribuita.
Non ci conoscevamo precedentemente, ma passato attraverso il sottopassaggio e salito sul binario ho visto un gruppo di persone e sapevo subito che andavano dove andavo io: una ventina di persone si vedono raramente in questa stazione perfino alle tre del pomeriggio quando la gente torna dal lavoro, alle quattro del mattino manco a dirlo. Mi sono subito accostato ad un gruppetto di tipi più giovani, non troppo vistosamente, ma quel che basta per sentire di cosa stavano parlando. Uno era sorpreso chi lì si producessero pneumatici; l’altro si chiedeva di che tipo preciso fossero ed era impaurito dal completo processo, poiché non lo aveva mai fatto; il terzo pensava che i pneumatici si producessero meno di tutto, soltanto su ordinazione, mentre si producessero di più prodotti in gomma. Forse soltanto una semplice materia prima senza forma, disse uno. Mentre gli altri si perdevano in presupposti, dando delle occhiate verso ovest, da dove doveva arrivare il treno, ho notato l’arrivo della locomotiva, e in seguito di tutta la composizione su uno dei binari da est: un minuto dopo tutti lo hanno sentito e si sono voltati – il treno, evidentemente un treno passeggeri stava soltanto lievemente rallentando entrando in stazione e divenne chiaro che non si sarebbe fermato. È passato per il binario quattro e allora abbiamo capito che si trattava di un treno passeggeri organizzato pieno di profughi che senza fermarsi ha proseguito verso ovest, ancora sprofondato nel buio. Le carrozze sfasciate erano probabilmente tra le più vecchie reperibili nei Balcani, e gli scompartimenti erano strapieni – donne, bambini, giovani e vecchi si ammucchiavano nel corridoio e alle finestre, e ci osservavano. Noi osservavamo loro. Ho alzato la mano a mo’ di saluto e sono rimasto di stucco quando da una carrozza uno mi ha mostrato il dito medio seguito da un commento offensivo. Da qualche parte è volata una scatola di sigarette stropicciata e una bottiglia di plastica con un po’ di succo di frutta sul fondo. Mi sono girato intorno e ho capito che alcuni dei giovani che si trovavano sul binario, avevano issato la mano con il dito alzato, ovviamente provocando alcuni viaggiatori, e lui non “ha risposto” a me, ma a quelli dietro di me. Mi sono vergognato come se alzando la mano avessi fatto qualcosa di orrendo. Ero un'indistinguibile parte della massa, solo questo, e non vi erano giustificazioni per questo. Più tardi i tipi nel treno parlavano che i musulmani avevano iniziato per primi con le provocazioni, e che in verità sono loro ad aver risposto, ma io non ne ero certo. Tutti stavano ridacchiando some se avessero conseguito una grande vittoria, una non so che battaglia. Soltanto io mi vergognavo, perciò nella carrozza verso est, che su questi nostri binari durava più di mezz’ora, ho tentato di dormire ancora un po’.
Il “bar della stazione” era in verità molto più vicino ai condomini che all’edificio della stazione, nella direzione totalmente opposta alla fabbrica dove eravamo chiamati. Si trattava probabilmente del locale più vicino alla stazione, da dove il suo nome bar della stazione e possedeva l'indole mattiniera jugoslavo-operaia, alla quale ero abituato bighellonando con mio padre, allora magazziniere nella vicina fabbrica. L’unica differenza è che adesso il locale era pregno di elementi di folclore nazionale e politico dei Balcani: vi era appeso qua e là sui muri del kitsch patriotico e religioso, e dietro al bancone c’era l’incorniciato ritratto di un criminale di guerra. Uova sode e wurstel, caffè nero diluito, troppo zuccherato, sembrava che andasse bene a tutti di bere quella diarrea. Com’è la gente che ingerisce qualcosa del genere? Al ritorno dalla colazione, facendo lo stesso tragitto, abbiamo notato che quando si è fatto quasi giorno, le vetrate dell’edificio della stazione erano ancora buie; da vicino la punta dell’edificio della stazione era irregolarmente dentata, come lo era anche la punta del camino che spuntava poco sopra i muri; quello che nel buio più profondo mi sembrava come la sagoma di una tetto, erano in verità le fronde degli alberi che crescevano all’interno delle stanze, e le finestre erano soltanto buchi nei muri pericolanti, con stracci di legno al posto delle ante. In silenzio abbiamo girato intorno alla pericolante stazione, attraversato la desolata carreggiata a quattro corsie e continuato leggermente in discesa, verso la facciata rettangolare della grande fabbrica sulla quale qua e là si accendevano delle luci giallognole e blu. Erano quasi le sei.
Qui ci fermeremo e aspetteremo un po’, disse un piccolo tipetto grassottello. È venuto fuori che si trattava di un certo “supervisore" e che lì dovevamo aspettare il “capo”. Ci trovavamo ad un piccolo incrocio a circa duecento metri dalla fabbrica. Nel gruppo si sparse la voce che al telefono abbiamo parlato con questo tizio che tutto il tempo si trovava in mezzo a noi, e che il capo ci avrebbe accolti con un camioncino, furgoncino o soltanto per salutarci e darci il benvenuto. Dopo dieci minuti sono apparsi i fari di una macchina: presumibilmente si trattava soltanto del benvenuto. Dalla BMW è sceso un uomo alto, brizzolato, baffuto, sui tardi cinquanta. L'ho riconosciuto subito. Era Milan, il noto cowboy del paese che tutti chiamavano il Guerriero, handicappato con abilitazione al lavoro in pensione, e convertito politico locale. Spaziava prevalentemente tra i filoni di destra, come tale lo conoscevo e ciò mi bastava. Mi è venuto un sospetto. Lo vedevo la mattina presto in osteria; entrava e salutava urlando, scrutando tutti i presenti. Poi, con sotto braccio il solito giornale che comunque non avrebbe letto, si sedeva al tavolo con il già radunato gruppetto di ex combattenti in pensione che vivevano di incentivi per l’agricoltura; commentavano a squarciagola le attualità politiche, il meteo e precedenti guerre finite da un pezzo, lanciandosi da tavolo in tavolo commenti gioviali sui Serbi e altri comunisti. Negli ultimi tempi promuoveva Trump, come se lo riguardasse direttamente, come se gli emigranti messicani e i cartelli di droga gli calpestassero i campi e come se lì ci fosse qualcuno con il diritto di voto negli USA. Da quel che sapevo, quel tale ha “conquistato” soltanto un paio di paesini nei dintorni, non è mai stato all’estero e nemmeno sulla Luna. Affermava che se qui da noi l’aborto viene vietato dalla legge, l'America di Trump investirà miliardi per lo sviluppo della nostra economia e dell’esercito. Abbiamo già per un bianco e un nero ricevuto i più moderni elicotteri, e si mormora anche dei navigli militari. Si trattava di un'informazione proveniente “dall’alto”. Tutto ciò grazie al lobby della sua opzione politica. Ma durante queste mattinate erano prevalentemente i Serbi a rodergli il fegato. Che cosa ci fa lui qui, all’alba, su questa brughiera, all’incrocio nel bel mezzo di questa landa, nei pressi di una stazione pericolante e di una fabbrica rinnovata? Mi sono girato verso est, lì dove era più chiaro e in lontananza ho intravisto una grua portuaria, spezzata a metà e sospesa. Formava un non so che a forma di numero sette, mentre l'altra, ancora retta, poteva essere il numero uno. Diciassette? Il Guerriero scherzava ancora con il supervisore e gli operai, e poi si è seduto in macchina e ha preso la strada in direzione opposta dalla fabbrica. È venuto fuori che dovevamo seguirlo a piedi, non lontano, ci disse il supervisore, un centinaio di metri in tutto.
Nessuno aveva la più pallida idea di cosa stesse succedendo e dove ci portasse. Forse alla fucilazione, scherzò qualcuno. Volevo girarmi e andare via, ma la curiosità e un filo di speranza mi spingevano in avanti.
Tuttavia abbiamo camminato per buoni quindici minuti per una strada che diventava sempre più polverosa; si trattava di polvere bianca fine di intonaco che evidentemente si depositava da anni dai muri che vedevamo tra le erbacce e cespugli a destra e sinistra. Si vedeva/capiva che qui una volta c’erano delle stanze e delle sale, alcune anche molto grandi, persino seminterrate, e che di loro rimangono soltanto le ricoperte fondamenta e i resti dei muri e dei pavimenti di malapena un metro d’altezza. Lungo il tragitto si sono uniti a me Alen e Marijo, due tipi più giovani che evidentemente si conoscevano da prima: parlavano del culo di una certa Nikolina, poi un po’ delle quote per la Coppa dei campioni, e del lavoro che ci aspettava e dello stipendio. Poi del culo e delle tette di una certa Mirjana o Marijana. Sputacchiavano continuamente intorno. Era completamente giorno quando abbiamo intravisto due alti pali di cemento da entrambe le parti della strada. Quello di sinistra era più basso, e sulla cima di ciascuno spuntava l’armatura arrugginita, come qualche morbosa pianta surreale. Si trattava del portone della fabbrica. Alen mi bisbiglio che qui non c’era nessuna fabbrica di pneumatici. Io lo so, chiedimelo, disse. Non c’era bisogno che glielo chiedessi, parlava da solo. Si tratta di un semplice “ciullodromo”, strade non illuminate e stradine per escursioni notturne in macchina, disse. Qui non c’è niente, ripeté quello che era ovvio, soltanto rovine e squallore di merda. Ci hanno fregati fottutamente, disse Marijo. Tra gli operai si sentì un mormorio e disapprovazione, qua e là si sentivano domande e bestemmie. Il Guerriero è uscito dalla macchina e ha parlato con il supervisore e con un paio di operai guardando nella nostra direzione. Cinque o sei si erano già incamminati indietro per la strada, verso l’incrocio. Sono le fottute fondamenta della fottuta fabbrica di pneumatici jugoslava, rasa fottutamene al suolo durante la guerra, ripeteva Alen mentre camminavamo per strada, verso l’incrocio. È venuto fuori che il Guerriero avesse comprato la superficie dell’ex fabbrica con l’intenzione di ripulirla dai detriti; lì ci aspettavano una ventina di pale, picconi, accette, una sega a motore e alcuni rimorchi di camion e trattori in cui tutta l’immondizia doveva essere riposta. Tra i detriti dovevamo separare i mattoni e i pezzi di ferro interi, e probabilmente tagliare anche gli alberi per il riscaldamento. Era questo il lavoro nella “fabbrica di pneumatici”. Naturalmente ci hanno fregati, ma il baffuto poteva difendersi facilmente: nel bando di concorso scriveva “sulla fabbrica di pneumatici” e no “nella fabbrica” - si tratta di una sottigliezza linguistica che nella parlata locale fa la differenza tra la verità e la “verità alternativa”. Il lavoro alla fabbrica di pneumatici c‘è lo siamo semplicemente immaginati, dissi, abbiamo avuto un'allucinazione. Mi hanno guardato con stupore. Tuttavia, una decina di disperati è rimasta a lavorare poiché, come dicevano, “il lavoro è lavoro”. Pensai che fosse strano che lui avesse pubblicato un bando di concorso per questo lavoro. Qualcuno disse che era per trovare più facilmente lavoratori, e che adesso probabilmente avrebbe annullato il bando di concorso e che li avrebbe pagato in nero. O stavo pensando a voce alta o farneticando tra me e me. Come si permetteva di farlo, bisbigliai, e poi mi fermai, era chiaro – chi di noi poveracci lo denuncerebbe? All’incrocio abbiamo capito che la “grande fabbrica” lì davanti era in verità il muro laterale del centro commerciale – tutte le luci aerano accese, i furgoni consegna arrivavano davanti al magazzino sul retro e presto sarebbero arrivati i primi clienti. Mi sono incamminato verso la stazione ferroviaria, mentre Marijo e Alen si diressero in centro, come dissero ad un “corteo per i profughi“. Hanno invitato anche me, dissero che ci sarebbero state salsicce e vino, “ci sarà di tutto” disse Alen. Ho lasciato a loro di dare il mio contributo e mi sono incamminato verso casa svogliatamente.
Ma in quello che rimaneva della stazione non c’era né il treno né l’orario delle partenze, e nemmeno qualcuno a cui chiedere. Potevo aspettare lì per ore e ore, pensai, e ci avrei aspettato se avessi avuto del cibo e una sdraia all’ombra, ma non li avevo. Le defunte grue arrugginite si sono nuovamente ammassate sopra la mia testa, mentre a sinistra, verso la periferia si trovava il massivo silos di cemento con una decina di rotondi buchi di granata; ve ne erano di forma e grandezza irregolare, ma da tutti fuoriusciva il buio. O vi entrava. È lì che va a finire la notte. Pensai che questa era l’ultima cosa che si immagazzinava qui dentro. Subito a fianco del silos passava la ferrovia che abbiamo preso per arrivare qui. Il secondo silos da qui non si vedeva, e tra loro due si trovavano i bruciati e arrugginiti muri dei grandi capannoni per la rimessa dei treni, di cui i tetti erano diroccati, le cornici in metallo storte e vi erano innumerevoli buche rotonde sulle parti laterali. Da tutto e all'interno di tutto crescevano alberi, alberi alti, brughiera e erbacce. Piante, piante dappertutto, alte e basse, piante addossate fino a diventare non trasparenti e irriconoscibili. Il pullulare diluviante, la felce e gli occhi nei cespugli attorcigliati. All'improvviso una vespa mi è apparsa davanti agli occhi, ho sventolato con le mani, e quando tutto è tornato al suo posto ho capito che si trattava di un uccello che è sbucato molto davanti da una buca rotonda sul silos. Ciò mi scosse, trasalii e mi voltai verso il centro. Avevo davanti più di tre chilometri, più di mezz’ora, a fianco dell’ospedale e del mercato, attraverso il ponte, in piazza nel mezzo del corteo di supporto e poi su, alla stazione delle corriere. Da qui si vedeva soltanto il vicino grattacielo condominiale, giù in lontananza l’albergo in riva, ormai in centro e ancora più in basso lungo il meandro del fiume un’alta torre in mattoni e cemento.
In piazza si è raccolta una trentina di persone con alcuni striscioni: sembrava che non si rivolgessero a nessuno di persona, soltanto ai passanti che perfino li osservavano, non abituati ai cortei e a manifestazioni in genere. Vicino al ponte ho comprato un hamburger da poveracci, con un pezzo di carne puzzolente e una foglia di lattuga stropicciata e lo mangiai guardando i manifestanti. Più della metà erano donne, parecchi studenti, ma anche alcuni uomini dai capelli grigi. Potevo concordare con i loro punti di vista scritti sui manifesti, ma non avevo né voglia né tempo di unirmi a loro. Il groppo che avevo in gola si stringeva e allentava. I coltelli nel petto e sulla nuca. Sui ponti erano appesi dei fiori. Il piccolo fiume si riversava in uno più grande. Si sentiva il mormorio, il fruscio, qualcuno ha accartocciato un sacchetto di hamburger unto. Il grande albergo in riva era uno scheletro di fori per finestre traforarti, colmo di buio. Una delle manifestanti stava spartendo dei volantini, perciò mi sono avvicinato e ne ho preso uno. Si trattava di un volantino propagandistico in bianco e nero, stampato in modo economico, che ripeteva principalmente il testo scritto sui manifesti, sottoscritto in fondo dall’organizzatore, un’associazione civile di cui non avevo sentito prima. Associazione fondata probabilmente per quell’occasione. Sul retro del foglio era per qualche ragione stampata la piantina della città, forse per i simpatizzanti provenienti da altri posti, che gli organizzatori speravano di vedere. La ragazza stava dicendo qualcosa e io osservavo questa mappa conosciuta che dalle mie mani si allargava per chilometri attorno e si riempiva di colori, profumi, avvenimenti e ricordi. Perfino la mappa insinuava la bruttezza di questa città: le immensamente lunghe strade cieche a senso unico senza segnali stradali in cui vi potreste perdere facilmente, per essere infine attesi dalla polizia; vie serpeggianti, tortuose, collinari che terminavano inaspettatamente davanti a colline spezzate, sostenute da muri da supporto in cemento; rotonde su strade diritte, passaggi bizzarri tra quartieri come tra vari paesi; scorciatoie che portavano da nessuna parte e sottopassaggi sotto a niente; piccole piazzette nascoste simili a cortili interni senza edifici attorno; case a un piano senza intonaco sulla facciata; angusti e nefasti ruderi di barocco di confine in centro e caotici intrecci di edilizia socialista e industriale dappertutto intorno a noi. Pensai che tale bruttezza prima o poi doveva fuoriuscire dalle gente, manifestarsi in qualche modo, tutto ciò che per decenni si ammucchiava, all’improvviso è fuoriuscito. Pensai che la gente avesse solamente mostrato il suo stato d’animo. Incredibilmente brutto – dissi o volevo dirlo alla ragazza che stava ancora parlando, ma è mancato l’audio. Dietro alle sue spalle, da una strada secondaria si è precipitata una massa di gente, parevano prevalentemente maschi giovani. Potevano essere una decina. Man mano che si avvicinavano, era chiaro che erano armati di mazze, bastoni di legno e catene, ed era chiaro che ci correvano incontro, il che portò immediatamente in subbuglio il gruppo. Negli ultimi attimi prima dell'impatto ho visto alcuni poliziotti davanti al palazzo municipale e alla banca, si sono spinti davanti alla porta, e uno di loro parlava al suo motorola. In quel momento anche l'immagine è rallentata. Alen mi si avvicinava pianissimo, passo per passo, con i pugni chiusi e con un deforme, non articolato, immobile e perenne urlo sul volto. Avevo abbastanza tempo per vedergli anche i denti, di pensare all’edificio della stazione ferroviaria e al silos sullo sfondo, e poi ho visto il mio proprio pugno entrargli nel mezzo della faccia, senza suono, inodore, al rallentatore, la pelle sulle guance gli tremava piano piano, in modo regolare, come sulle fotografie dei paracadutisti, onde sul cranio. Il liquido è schizzato e in quel momento qualcuno ha acceso l'audio e il tempo e la forza di gravità hanno iniziato di nuovo a funzionare.
traduzione di Ivana Martinčić