Mirana Likar Bajželj: Il mattino dell'ultimo giorno (2015)
Il Premio Lapis Histriae 2015
MIRANA LIKAR BAJŽELJ
IL MATTINO DELL'ULTIMO GIORNO
Chi sono io? In questa notte? Giorno? Altrimenti? Che cosa sono? Una badante. Un arnese. Sono distesa in corridoio, non so nemmeno se sono sveglia o dormo, e mi controllo in un silenzioso, vuoto, sordo, soffocante, grigiore notturno. Mi prudono le lenzuola? È ancora notte? È già giorno? Che giorno è?
Ho la vista precisa degli occhi d'uccello. Guardo dall'alto. Sono le cinque del mattino. Venerdì. Il suo gusto è di caffè acido amaro. Mi siedo in una vecchia ed arrugginita Twingo. La vicina mi dà sempre un passaggio. Una strada bagnata dalla pioggia serpeggia da Peroi alla stazione delle corriere di Pola. Non ho dormito abbastanza. Sono agitata. Non dormo mai la notte prima della partenza. La partenza mi fa male. Mi prude. Vado in una tragedia.
O si tratta soltanto del lenzuolo. Prendo il carrello spesa con le rotelle dal bagagliaio. L’hanno tutte. O il trolley. Io amo di più il carrello. È più leggero. Ci ho legato su un fiocco di seta, poiché c'è ancora del bello al mondo. Vi ho messo dentro le cose necessarie per quattordici giorni.
Compro il biglietto. Costa un giorno di lavoro. Ciao, la vicina bacia l'aria lungo il mio viso, verrò a prenderti, fatti viva. Non la saluto con la mano. Non posso. Mi blocca lo sguardo verso di lei. Lei è libera. Lei non deve andare. Anche oggi cucinerà a casa la sua zuppa di patate. Ancora oggi la sua cucina profumerà di libertà e timo. Il suo. Proprio. Dell'aiuola sotto la finestra.
Buongiorno Marija, mi saluta Oto, che è allo stesso tempo controllore e conducente. Il mio nome è ancora il mio nome. Per quattordici giorni non lo sentirò. Le case lungo la strada sono al buio. Sulle finestre cadono delle gocce che si versano in flussi. La velocità o il vento di scirocco le distendono orizzontalmente. La finestra profuma di metallo, sale, ago e di che cosa ancora. Perché quello che guardo ha un profumo? Se non avessi una vista da uccello, potrebbe pungermi. Con un coltello, una forchetta, con qualunque cosa atta a pungere, soltanto se gli volgessi le spalle. Una volta chiusi veramente gli occhi. Quando non sto guardando. Perfino con una scheggia?
Sono una badante. Ho un fisico sinuoso da serpente. Non ho membra. Le mie mani penzolano tristi, come morte, le gambe sono tagliate. Posso girare per il buio, con la lingua spaccata, noto la presenza di lui, la presenza di lei, lei non è pericolosa, sento dove si muovono e come, senza accendere la luce. Lui sa diventare disgustoso. Non lo guardo negli occhi. Non gli lascio scovare alcunché in essi. Qualcosa sulla quale fissarsi. Ma la notte devo guardare. Se accendo la luce inaspettatamente, può saltare, buttarmi per terra, soffocarmi... È pur sempre grande e forte. E pazzo. Un pazzo forte.
Mi do una mano con il calendario. Ogni giorno crocetto un giorno sul calendario. Lo porto a termine. Crocetto. Vado avanti. Lo porto a termine. Crocetto. Vado. Avanti. Il primo venerdì. L'ultimo venerdì. La prima crocetta. L'ultima crocetta. E aspetto il cambio. Il tempo è un serpente infinito. Al suo temine si trova un'altra badante. Dal Carso. Non parliamo molto. Quando arriva, mi astengo a malapena a non uscir correndo. Il carrello è del tutto leggero. Il nodo svolazza. Di cosa dovremmo parlare. Lo sappiamo com'è. Ho fatto il mio. Adesso è il suo turno. Le consegno l'angoscia. Adesso è tutta sua. Ho 525 euro in tasca. Fuori c'è vento e il sole e il profumo di città e il profumo di sale. L'autobus parte alle due. Fino ad allora possono guardarmi le mostre. Sono seduta su una panchina. In rare occasioni mi compro un gelato. Il caffè ancor più raramente. Oto mi chiamerà per nome. Saluti Marija, dirà. E, andiamo a casa?
Ho un udito da pipistrello. Distinguo il fischio dello scirocco, che mi ha seguito, dalla bora, nella quale si è trasformato ieri. Sento le gomme della bici di David, il respiro dell'asfalto, il sorriso, con un piede sale sul sedile, imita la rondinella... Mi da la forza di vincere la malattia, lo schifo, la paura, l'angoscia... L'autobus passa vicino alla marina, sento persone di altre specie, il mare che sbatte contro il molo di San Carlo, i piccioni in Piazza Unità... Se non sentissi il fruscio delle lenzuola, i passi notturni, non presagirei la tragedia, la catastrofe, i giorni che non ci sono e quelli che ci sono… Potrebbe ferirmi in qualsiasi modo, e lei non si farebbe nemmeno sentire. Non è cosciente di sé, figurati di me.
Ho un forte cuor di leone. Ogni badante ha un cuore pieno di diversi ricordi. Il mio è pieno degli sguardi di David, delle sue mani che lavano i piatti durante le mie domeniche, mi fanno sedere sul divano e mi portano il caffè, lui è la mia forza, la mia salute. È per lui che mi lascio andare al viscido scirocco non perché mi spinga nell'androne di marmo, nel buio, nel puzzo, nell'inesistenza. Mentre mi allaccio il grembiule, David fa scorrere il sangue nelle mie vene. È per lui che lavo i vecchi culi italiani. È per lui che non impazzisco. Portami questo, portami quello, pulisci, lava… È per lui che lascio che, per trentacinque euro al giorno, governino su di me coloro che non possono governare su niente altro, nemmeno sulle proprie mani. È per lui che faccio un milione di passi con le gambe tagliate. Se non ci fosse lui avrei già finito con questa cosa.
Ho uno stomaco di ferro, uno stomaco da lupo. È per questo che adesso non vomito. La puzza è brutale. Mi alzo dalla branda. Sono scalza. Al buio apro silenziosamente la porta socchiusa. Sul pavimento sotto l'illuminazione stradale luccica una pozzanghera. Si è di nuovo strappato il catetere.
Lei è seduta per terra come un Budda muto, è nuda, si pulisce la testa con la camicia da notte. Anche senza il mio acuto fiuto canino saprei che cosa si è spalmata sulla testa.
Metto le scarpe. Apro la finestra. Indosso il grembiule.
Accendo la luce, prima in corridoio, poi quella piccola nella sua stanza, il mio stomaco da lupo si sposta per quattro volte. Trattengo il respiro. Si è tolta il pannolone. La camicia da notte è piena di merda, l'ha spalmata dai capelli sulla testa sino alle unghie dei piedi. Sono le due del mattino.
È agitato. Impreca. Mi crescono le mani, per questo vado a prendere i guanti. Gli dico che tutto è a posto. È a posto. Andiamo. In modo stupido e senza denti ringhia mentre la porto in bagno. Andiamo. La spingo sulla sedia sotto la doccia, butto la camicia da notte in lavatrice. Imposto il programma. Le asciugo i capelli. Le metto il pannolone. La vesto con una camicia da notte pulita, e la metto a sedere davanti al televisore. Aspetta, le dico. Adesso puzzo anch'io. Andiamo. Mi tolgo i vestiti da lavoro.
Asciugo l'urina. Spero che l'acido non divori il mio stomaco di ferro da lupo. Se non lo faccio io, lo farà qualche Moldava per meno soldi. Io guadagno i miei soldi. Il mio pane e il mio latte. Andiamo. Se ci fosse dove, più volentieri ruberei. Andiamo. Mi tendo. Lo raddrizzo. Lo alzo, lo metto a sedere nella poltrona, gli tolgo il pigiama, non bado agli importuni, vado solo avanti, lo asciugo con un asciugamano bagnato, mi tento, lo raddrizzo, lo vesto con un pigiama nuovo, cambio le lenzuola, mi tendo, lo raddrizzo, lo sposto sul letto, metto a posto il catetere, sta bene, bene, lo calmo, andiamo, l’accompagno, la faccio stendere vicino a lui e spengo la luce. Chiudo le finestre. Mi faccio una doccia. Ancora puzzo. Indosso una tuta da ginnastica pulita. Sono le quattro. Luccica sopra Trieste. Mi scaravento sulla branda in corridoio. Non ho più forze. È un bene che il vento abbia girato, porta il Sole.
Mi chiedo come sia possibile. Che cos'è successo? Quando ha preso una brutta piega? Di chi è la colpa? Siamo alcune migliaia. Dalla Moldavia, Ucraina, Romania, Croazia, Slovenia… Fuori la bora vaga per le vie, solleva i rifiuti e li porta in mare. Scrivo al buio. Scrivo al mio presidente, al papa, all'assistente sociale, ai miei cari estinti, ai ministri, a Dio: siete socialisti, fate qualcosa per noi poveracci… Mi umiliate… Scrivo e rileggo quello che ho scritto. Duecento euro di pensione? Siete normali? E il pignoramento per cinquecento? Affluiscono nuove parole. Brutte parole. Che bruciano. Si impietriscono. Tento di addormentarmi scottata, per far sì che prima della mia partenza possa sbucciare i resti di sporco, mettere in tavola la colazione, sopportare gli insulti, rimpinzare, stirare, pulire. Devo addormentarmi per diventare quanto prima Marija. Ho dimenticato di dargli il calmante. Anche così dorme. Non lo sveglio.
Il sonno stenta e poi stenta ad arrivare, perciò mi alzo, prendo il calendario, crocetto una nuova data. Oggi ho settantatre anni… cinque mesi… e undici giorni. Pensionata di transizione. Sono viva. Ho David, mio nipote, che tranne me non ha nessun altro al mondo. Mi stendo. Chiudo gli occhi. Ascolto. Fisso la mia notte, in cui ci sono ancora stelle in cielo. Mi lascio andare.
Lo sento nel sospiro del vento, annuso, sento. Si è alzato. Mi passa vicino. Dove? Perché? Anche lui vede nel buio. L'urina gocciola di nuovo per terra. Ogni goccia si decompone in mille frammenti puzzolenti. È ritornato. Ha qualcosa in mano. È pesante. Scura. Un tagliere? In olivo. Gli anelli sono quasi scuri. Un buchetto sul manico. Un canale di flusso e raccolta del liquido. Un incavo per il sale a forma di mezzo uovo. L'ho dimenticato sul tavolo. Lei dalla stanza lo sprona sbellicandosi senza denti. Non posso aprire gli occhi. Ho dimenticato… Mi spaccherà il viso. Mi fracasserà il cranio. Non posso muovermi. Forse non è il tagliere. Sventola qualcosa. Forse è un coltello. Forse è un cuscino. Adesso, adesso mi punge, mi cinge, adesso mi soffocherà… Non posso aprire gli occhi. Non posso.
Ma forse non è niente. Forse possono rimanere chiusi. Forse. Niente. Forse la badante ha permesso alla bora di scombussolarla in sogno, poiché è già il mattino dell'ultimo giorno.
traduzione di Ivana Martinčić